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LE STELLE SENZA IL TRAMONTO, 2017, Palazzo Ranzanici, Castenedolo – solo show

Di primo acchito esuberante ed espansiva, la pittura di Mattia Barbieri sottende un’elaborazione intellettuale di primo livello. Nonostante la spiccata capacità tecnica, gli effetti illusionistici e la ricchezza di elementi, si tratta di una pittura di superficie. Tutto si svolge su un unico piano, ideale e concreto, un campo all’interno del quale gli elementi si dispongono senza apparente gerarchia.

La superficie del dipinto raccoglie sedimenti dell’immaginario collettivo, della storia dell’arte, della cultura popolare; tutto è sullo stesso piano perchè il dipinto dichiara fortemente di non avere un centro. O meglio, ne possiede diversi, disparati e concomitanti, alternative democratiche all’univocità che viene istintivo cercare in un quadro. Barbieri descrive questo tratto della sua poetica parlando di “pittura senza soggetto”; e con ciò intende senza un soggetto prevedibile, precostituito, univoco, riconoscibile senza elaborazione intellettuale da parte dello spettatore.

La composizione è evidentemente solida, a tratti certosina e virtuosistica; ma, scegliendo la strada più difficile, essa si basa su un centro multiplo, disperso, frammentato e non immediatamente a disposizione. La dittatura del soggetto che oggi vige, e che questi dipinti scardinano, non è certamente quella umanistica, che poneva l’individuo al centro, che lo valorizzava facendone un cardine e un punto di snodo per la costruzione della collettività. La frontalità dell’individuo oggi è invece una frontalità di facciata, una bidimensionalità che pone lo pseudosoggetto al centro di stimoli da lui incontrollabili. L’esautorazione del soggetto avviene proprio fingendo di mettere il soggetto stesso al centro. E lo schermo digitale è un buon simbolo di questo spodestamento: ciò che viene percepito come specchio personalizzato di sé è invece un pozzo senza fondo, un fulcro in cui lo sguardo si perde rinunciando al discernimento di se stesso. Ecco che, in quest’ottica, la pittura di superficie di Barbieri si configura come un commento sulla situazione esistente, e soprattutto come la rappresentazione di un’alternativa. Tutti gli elementi sono sullo stesso piano, sì: ma nessuno di essi si perde nell’omologazione; la centralità e l’univocità del soggetto si perdono, ma in virtù di un’espansione delle possibilità, di un aumento delle potenzialità di interazione tra i diversi elementi e tra le diverse sfaccettature del soggetto. L’omogeneizzazione di riferimenti e elementi che vive sulla superficie è il contrario dell’omologazione; è piuttosto un’operazione di riappropriazione o di détournement. Il riferimento al digitale è in effetti un elemento importante nell’opera di Barbieri, sempre nell’ottica della riappropriazione. La simulazione di effetti e tecniche digitali ottenuta esclusivamente con la pittura non vale come tentativo illusionistico in sé e per sé, ma serve a rimescolare le carte all’interno dell’estetica digitale che ogni giorno sperimentiamo. Il digitale non è però l’elemento prevalente. Tutto confluisce in un discorso sulla pittura che consiste in una presa di distanza, in un riesame delle convenzioni e nella costruzione di una lettura di secondo grado, senza che venga perciò esautorata la pittura stessa. Essa diventa un mezzo e non un fine, e proprio per questo viene valorizzata. In fondo, i dipinti di Barbieri funzionano come dei congegni che, riportando sullo stesso piano elementi disparati, mettono in moto “lo spazio e il tempo della pittura” – come dichiara l’artista stesso. Una volta innescato questo meccanismo, lo spettatore deve procedere a un percorso di appropriazione del dipinto, all’attraversamento di uno spazio libertario. L’operazione di riappropriazione agisce ovviamente anche sull’immaginario esterno all’opera, contro le standardizzazioni dell’estetica digitale e di ogni discorso precostituito, non ultimo quello relativo alla pittura. Fin qui il quadro concettuale, il metodo, l’ambito nel quale questi dipinti si muovono: lo studium, per dirla con Barthes. Ma all’interno di questo schema non manca certo il puctum: i dipinti di Barbieri presentano mille elementi espressivi, concatenazioni di significato, metafore e allusioni, pur senza mai scadere nella narrazione o nel simbolismo. Alcuni di questi elementi si ripetono, tornano di opera in opera come una firma, un marchio che estende il discorso oltre l’episodio. Altri si presentano inopinatamente, una tantum, e fanno l’unicità del singolo quadro. Nella presente mostra, come in quelle precedenti dell’artista, la catena di significanti si innesca sin dal titolo. Le stelle senza il tramonto è una frase che proviene dall’universo privato dell’artista, un ricordo innescato dalla suggestione di esporre nel paese della sua infanzia. Ma la frase si slega dal referente d’origine per diventare spunto d’interpretazione, vago al punto giusto, dei lavori: secondo Barbieri, “le stelle senza il tramonto” dà un’idea di permanenza, di eternità; ma si potrebbe aggiungere che la frase evoca anche un’atmosfera di provvisorietà, di precarietà, un’inversione di spazio e tempo che spiazza le aspettative. Il titolo evoca, in ogni caso, l’irruzione di uno scenario, la comparsa inopinata di un paesaggio, concetto quest’ultimo fondamentale nella poetica dell’artista. Gli spunti concreti inerenti al paesaggio non mancano: nei riferimenti alla pittura antica, nella rappresentazione (frammentaria) di una natura che si oppone alle immagini tipiche del capitalismo avanzato -frapponendosi tra loro. Ma si tratta soprattutto di un paesaggio mentale, non nel senso di astrazione onirica ma di panorama dell’immaginario: un vero e proprio campionario di spunti tratti dall’immaginario collettivo compone i dipinti senza centro (e “senza soggetto”) di Barbieri. Va da sé che questi spunti sono rivisitati, sublimati, allusivamente messi in rapporto secondo dinamiche incongrue di riappropriazione. Altri spunti simbolici -ma sempre antinarrativi- sono quelli che indicano una tensione verticale, un’ascensione, un oltrepassamento: dal terzo occhio che si trova nel ritratto pseudodigitale sagomato, fino al corno fallico che punta verso il cielo all’interno di alcune sculture. Si aggiunga ad essi il cielo che compare a sprazzi, più evocato che rappresentato, e i brandelli di paesaggio già citati. La sensazione generale è quella di una liberazione, dell’uscita dallo spazio costringente, fisico e mentale, che caratterizza la nostra epoca. Si diceva degli elementi che ritornano di quadro in quadro, e dell’indagine sul “tempo della pittura”: attengono a questi due ambiti le cifre, i “contatori” che compaiono in punti defilati oppure centrali dei quadri: come cronometri mai partiti, oppure fermatisi senza ragione apparente, denotano la virtualità dell’immagine, la lettura di secondo grado che va fatta di ciò che si ha davanti agli occhi. Attribuiti a un singolo settore, complicano la divisione in sezioni concomitanti dei dipinti, rimescolandone la gerarchia: qual è il piano attuale e quale quello involuto nel continuum temporale? qual è quello reale e quale quello immaginario? L’uno e l’altro piano, ovviamente, a turno e contemporaneamente. Un altro elemento ricorrente sono poi i brandelli di scotch, simulati con la pittura. Punti di raccordo tra i diversi settori del dipinto, snodi tra diversi elementi e assieme elementi cardine della composizione, sono una perfetta raffigurazione simbolica della teoria del piano orizzontale di Leo Steinberg -la sua descrizione dell’opera d’arte contemporanea come “campo” di pensiero concettuale si basava metaforicamente sul piano di lavoro del linotipista. Le sculture, infine, sono un’espansione alternativa del discorso dei dipinti: si collocano su un piano leggermente discosto dal discorso principale, portando avanti maggiormente l’ambito espressivo, allusivo, metaforico. Come motti di spirito per immagini, sciarade di oggetti, trasportano nello spazio la disposizione in piani concomitanti dei dipinti. Di primo acchito quasi sciamaniche, amuleti che scongiurano o propiziano qualcosa di indefinito e inafferrabile, le sculture si rivelano taglienti e “concettuali” grazie al dialogo linguistico tra gli elementi che le compongono, che si fronteggiano al loro interno.

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