SENTIERO LUMINOSO

Luigi Presicce

Spazio Contemporanea, Brescia 2022
SPACCACUORE

SENTIERO LUMINOSO

Luigi Presicce

Che razza di titolo è Spaccacuore? È come pensare che “Cuore Matto” o “24 mila baci” possano diventare delle hit! Ora, in questo momento storico! Come sedersi di fronte alla TV e guardarsi (dall’inizio alla fine) un film con Bobby Solo, Gianni Morandi o Nino D’Angelo! La trama è più o meno sempre la stessa in tutto quel genere di film: un lui e una lei si incontrano per caso e si innamorano, ma scattano subito degli impedimenti, delle complicazioni, ostacoli a non finire: lui parte, lei parte, i genitori di lei non vogliono, i genitori di lui sono poveri, le vacanze finiscono, lui parte per la leva, lei ha un altro, lui scopre che lei è una principessa… Partiamo da qui: lui scopre che lei è una principessa. A volte, nella finzione filmica, il titolo nobiliare di cui sopra riveste una funzione puramente decorativa per lei e mortificante invece per lui, ma quante volte abbiamo appellato la nostra ragazza di turno con questo titolo senza che fosse minimamente preso in considerazione un eventuale patrimonio in allegato?

Vi era un periodo in cui andava di moda scrivere con lo spray “ciao principessa” sul marciapiede di fronte all’abitazione dell’amata. È come quando vedi i tormentoni su i reels di Instagram in cui tutti fanno la stessa cosa per emulazione o per far parte di un branco (di stolti). Questo strano concetto di principessa “anobiliare” dovrebbe significare che, la lei in questione, è al di sopra di tutte le cose, prima nella lista dei pensieri e prima nella classifica delle bellezze del creato. Per qualcuno ovviamente questo concetto non vale o semplicemente gode del supplemento di relatività: non tutti gli anatroccoli nascono belli, ogni tanto uno nero (non di colore, sia chiaro!) fa breccia nel panorama delle varianti. Il proverbio recita: “se non ti assomigli non ti pigli” (italianizzato). Per cui a volte si vedono coppie bellissime da fare invidia e altre volte coppie in cui dici: “per fortuna si accoppiano tra di loro e Dio ce ne scampi” Passiamo però a un livello meno becero dalla bellezza tout court, altrimenti dovremmo considerare davvero le coppie vip, che poi alla fin della fiera vendono i prodotti per “campare”. Consideriamo appunto come questo livello di “nobiltà senza titoli” possa davvero essere motivo di interesse in una coppia di scrittori, artisti, architetti ecc. L’estate scorsa stavo vivendo in una profonda crisi e tra i libri che ho letto c’era anche quello di una tale Marilena Mosco dal titolo Artisti in coppia. Sottotitolo: passione, complicità, competizione. Devo dire, in forma di premessa, che io ho sempre evitato come la peste di avere relazioni con artiste, e sono stato anche abbastanza bravo fino a un paio di anni fa, in cui mi sono innamorato di una pittrice. Detto ciò, il libro non parlava di me e di Anna Capolupo e non mi ha dato molte speranze a riguardo, anzi non ha fatto altro che confermare la mia posizione avversa nei confronti dell’argomento. Il libro prende in esame una serie di coppie note nella Storia dell’Arte come Roden e Camille Claudel, Modigliani e Beatrice Hastings, Picasso e Dora Maar, Larionov e la Gončarova, i Delaunay, Pollock e Lee Krasner, Stieglitz e la O’keeffe fino ad arrivare alla coppia più blasonata dell’arte pop (non in senso artistico, ma di consumo di massa) Diego Rivera e Frida Kahlo. In un turbinio di manifestazioni amorose in cui l’idea di compagna/o e musa si fomenta in una follia che è propria solo degli artisti, si susseguono nel libro, suicidi, morte, disperazione, manicomi, lettere d’amore, matrimoni, separazioni, odio profondo, dissidio, tradimenti, riappacificazioni, tormenti e gloria… Insomma alla fine ero persuaso nella mia sana convinzione che navigavo nelle acque del giusto e che nulla mi avrebbe fatto cambiare idea. Non è andata in questo modo. Per niente. Ho cercato di riprendere in mano la mia storia con la pittrice della quale mi ero immamorato due anni orsono e che intanto era naufragata. Cosa mi abbia spinto a fare tutto questo ancora non me lo so spiegare, ma forse il titolo di questa mostra, Spaccacuore, puó servire a spiegare a me stesso e a chi legge il perché di questo scritto. Ho conosciuto Monica Mazzone e Mattia Barbieri a New York. Loro sostenevano che ci fossimo già incontrati a Milano, io negavo… come si fa spesso quando non ricordi né la faccia né il nome delle persone con le quali stai parlando. Questo disagio è per me raro dato che ho una memoria straordinaria per i nomi, le facce e le camminate della gente. Defaillance a parte, ricordo che quella sera c’era l’opening di Cuchifritos Gallery e relativa residenza (Artists Alliance Inc.) dove ero ospite anche io, appena arrivato per trascorrere i primi tre dei sei mesi previsti. Conoscevo poca gente a New York, nonostante ci fossi stato diversi anni prima e ancora di recente. Mi intrattenevo di rado con i curatori della residenza Alessandro e Jodi e uno sparuto gruppetto di italiani raminghi con i quali tentavo una forma di familiarità ostentata. Poi c’erano di artisti in residenza con me e qualche naturalizzato che avevo conosciuto in Italia come gli AND AND AND (René Gabri e Ayreen Anastas) o Ari Marcopoulos. Il mio inglese però era pessimo (e non è migliorato negli anni, anzi!) e quindi due nuove amicizie italiane mi avrebbero fatto piacere o comodo che dir si voglia. Rimanemmo quindi che ci saremmo sentiti per una cena, cosa che non avvenne di fatto, ma ci incontrammo di nuovo più in là nello stesso punto della prima volta. Di li a poco iniziai a capire cosa facevano loro o altri a New York e quando mi sentì pronto e padrone di una cerchia di nomi residenti nella grande mela mi inventai la Scuola di Santa Rosa NY (costola di quella italiana). Individuai un posto con un’amica, il Sel Rrose tra Delancey e la Bowery, un oyster bar che coincidenza serviva un cocktail chiamato Santa Rosa. Qui ogni martedì pomeriggio (in differita con la Scuola di Santa Rosa a Firenze tenuta da Francesco Lauretta) ci incontravamo per disegnare e bere. La prima volta ci presentammo agguerriti, io e l’amico Andrea Mastrovito, disegnatore per eccellenza, eravamo in due e faceva un freddo cane come solo a New York sa fare quando tira vento. Passò casualmente Michael Stipe dei R.E.M. e ci vide al freddo e al gelo che disegnavamo… sembravamo il bue e l’asinello del presepe, tanto eravamo rannicchiati su noi stessi e con le mani nascoste dentro le maniche della giacca. Chissà se Michael pensesse che eravamo dei disgraziati. Gelo a parte, di martedì in martedì la stagione andava a migliorare e con lei il numero di quelli che intanto avevano saputo che lì si faceva la Scuola di Santa Rosa. Qualcuno veniva solo per bere e stare in compagnia, altri invece erano proprio diventati affezionati alla cosa come Sara Enrico e Ludovica Carbotta (di stanza a NY in quel periodo) o Francesco Simeti che dopo ci portava a mangiare la pizza, autoctono qual è. Da due che eravamo insomma diventammo quasi sempre una decina a volte anche più, con qualche artista americana che veniva con Gian Maria Tosatti e altre new entry che non avevano nulla a che fare con il disegno come Veronica Santi. Questa parte del testo non vuole esaltare la Scuola di Santa Rosa, anche se indirettamente lo fa, ma cercare di far capire al lettore come nei tre lunghi periodi in cui sono stato a New York, i pomeriggi al Sel Rrose siano stati un collante per tutta una serie di persone che pur stando nella stessa città (manco tanto piccola) non si incontravano praticamente mai. Tra questi i nostri Monica e Mattia che essendo coppia vivevano una condizione abbastanza privilegiata. Insomma all’inizio è stato bello scoprire che c’era un sapore nuovo in questi incontri e loro hanno iniziato ad assaporare questa compagnia anche con i bizzarri disegni di Mattia e i curiosi giochi di linee colorate in movimento fatte da Monica con il telefono o il tablet. La mia era tutta invidia nel vedere Monica costruire i suoi “ritratti” attraverso procedimenti che ancora oggi non riesco a capire, mentre capivo alla perfezione i buffi anagrammi iconici di Mattia con i quali cercava di comporre il nome della persona ritratta o le splendide caricature degli astanti fatte utilizzando righelli e goniometri: linee perfettamente geometriche intervallate da gesti inconsulti e nervosi. Tra i due quella matta sembrava lei, ma poi lui tirava fuori delle cose che se ci penso ancora mi fanno ridere a crepapelle (un’altra parola come spaccacuore). Rimarrà impresso nella mia memoria il ritratto di profilo di Mastrovito con sotto scritto: La Chimera. Un capolavoro assoluto della ritrattistica! Intanto mentre io ero costretto a ritornare in patria, loro rimanevano li a fare mostre, residenze, fare lavoretti, cambiare case, affittare storage, spostare cartoni ecc. Nella seconda parte della mia residenza avevo anche approfittato della loro ospitalità per pochi giorni, quando scaduto il mio contratto di casa, sarei dovuto ripartire a breve. Monica non c’era, credo fosse in Italia, mentre Mattia c’era e continuava a fare scherzi, tipo: “ho dimenticato le chiavi dentro, dobbiamo rompere la finestra per entrare…” tutto questo al freddo più glaciale del mondo e noi fuori come dei cretini (io, Stefano Giuri e Matteo Coluccia). Alla fine anche io gli feci uno scherzo involontario: salimmo sul transfer che ci avrebbe portato al JFK e ci salutammo con vigore. La macchina parte e vedo dallo specchietto retrovisore un tizio (Mattia) che urlava e ci inseguiva correndo con una valigia tenuta sulla testa… Era la mia valigia. Dimenticata bellamente. Arrivò intanto il momento del Simposio di pittura alla Fondazione Lac o le Mon. Era la seconda edizione nell’estate del 2019, decisi di invitare sia Monica che Mattia. Arrivarono a San Cesario di Lecce quasi senza sosta da New York carichi di birre! Si sistemarono al piano superiore della casa adibito a zona notte e conobbero tutti gli altri invitati, eravamo quasi in trenta, un numero spropositato se si considera che la casa é completamente auto-sostenibile attraverso un impianto fotovoltaico. Questo voleva dire che una sera sì e l’altra pure rimanevamo senza acqua né luce! In ogni caso non furono queste le cose ad essere considerate difficoltà; si dormiva insieme, qualcuno faceva la spesa, altri cucinavano, altri ancora facevano le pulizie e si mangiava e beveva tutti insieme. L’idea utopica di comune attuata con armonia. Si dipingeva anche in quei giorni e si andava al mare la mattina o al pomeriggio. Ricordo che uno dei primi giorni avevamo organizzato una Scuola di Santa Rosa con pranzo di pesce annesso alla Maruzzella, un postaccio sul mare, vicino Gallipoli gestito da galeotti e bombaroli. Erano tutti come presi da euforia, ma Monica più di tutti, indossava un bikini che non faceva in tempo ad asciugare, nonostante il sole torrido, per quanto continuava a correre avanti e indietro per tuffarsi e risalire, tuffarsi e risalire e poi ancora tuffarsi e risalire… Sembrava avesse non più di 6 anni! Anche Mattia a suo modo sembrava eccitato, restava sotto il sole a picco a dare i fondi alle sue tavolette con un costume da bagno olimpionico, a fine sessione era cotto, sembrava un’aragosta con uno slip blu! Gli venne la febbre da insolazione. I giorni passavano e ci si ambientava un pò tutti, io compreso che intanto ero diventato il responsabile della casa vacanza. Mi piaceva vedere i miei ospiti divertirsi e lavorare, creare e occuparsi della casa e degli altri. Nascevano intanto nuove coppie che si andavano ad aggiungere a quelli già accoppiati, erano giorni felici fuori dai soliti turbamenti. Monica scattava fotografie agli altri e attraverso un complesso sistema di algoritmi e macumbe strane trasformava i volti degli astanti in quadri con turbolente figure geometriche tridimensionali, a tratti super appuntite e spigolose a tratti morbide e tondeggianti. Io stesso fui tradotto in quel modo… Ovviamente la somiglianza con il soggetto reale rimaneva una questione tutta sua, di Monica, che rideva compiaciuta quasi avesse fatto il nuovo record di salto in alto a occhi chiusi e con una mano dietro la schiena. Mattia dal canto suo mi ipnotizzava con dei profili di teste totalmente sospese e metafisiche, creava paesaggi e sfondi naturali completamente in contrasto con le teste, le faceva volare letteralmente nell’aria, le teneva in sospensione, come a trattenere il fiato. A proposito: qualche tempo fa a Verona ho sentito Monica che spiegava i suoi dipinti a un collezionista e mi è rimasto impresso sentirla raccontare di quando trattiene il fiato mentre tira una linea (sottilissima) con il pennello. Mentre lui simula un’apnea, lei rischia di rimanerci secca! Torniamo al nostro simposio però, manca la parte in cui racconto delle interviste segrete! Nel corso della prima edizione del 2018 avevo concepito un format che consisteva nell’isolare un componente del gruppo e fargli, mentre viene ripreso, trentatré domande. Ovviamente quello che conta è la risposta immediata e di cuore, per cui quelli già intervistati non svelavano mai il contenuto delle domande ai nuovi venuti. Questo momento arrivò anche per Monica e Mattia e ricordo di aver patito con Monica il suo pianto legato a una bruttissima notizia ricevuta in quei giorni (notizie che solo a noi figli possono dare). Lei, sembrava fatta di lamina d’acciaio fino a quel momento, ma in quell’istante aveva tirato fuori quella dolcezza tutta sua che continuamente combatte per sopraffare ed emergere tra le spigolosità del suo carattere. Fu un momento di rara commozione per entrambi, non ci posso ripensare che gli occhi mi si bagnano ancora. Anche Mattia tirò fuori un aspetto della sua personalità che mi era completamente sconosciuto, capì dalle sue parole quanto credeva nell’onnipotente, quanto la sua anima fosse devota, senza apparire neanche per un momento uno stolto senza ragioni. Sono stato davvero contento di aver avuto l’occasione di conoscerli in quella circostanza e appena sono ritornato a New York e li ho rincontrati ho capito che la nostra amicizia era forte, impavida e senza confini. La prova che sia esattamente come dico, sta nel fatto che mi abbiano chiesto di scrivere questo testo per la mostra che faranno insieme. Se valutiamo questo aspetto, a tratti goliardico, di fare un’esposizione insieme, lei e lui, tutto riparte da capo, dal principio di queste parole, dove tra le righe, parlando di sciocchezze e principesse ritrovo in Monica e Mattia il senso dell’unirsi in un unico corpo o massa camminante, come i quadri di Mattia in cui una figura alta e possente ne trasporta sulle spalle un’altra piccola e delicata. A nessuno però è dato sapere chi e in quale momento della vita interpreterà San Cristoforo, potrebbe essere lui che porta lei come l’esatto contrario, la vita è un mistero e come tale va presa fino in fondo. Ho dovuto soffermarmi più volte sul carattere di entrambi che da ora in poi chiamerò la loro bellezza. La loro bellezza va preservata, va tenuta in uno scrigno. Stamattina qualcuno mi ha chiesto se tornerà la normalità, io gli ho risposto che se per normalità intendeva routine e vecchie abitudini allora tanto vale dare sfogo allo scorrere evolutivo della specie e migliorarla, ammesso che ci si riesca. Quando due persone con la loro bellezza si incontrano, non si può fare altro che sperare in qualcosa di luminoso, non solo per loro e per noi che li conosciamo, ma per tutta la nostra specie. Luigi Presicce

ARTRIBUNE Pittura lingua viva.

ARTRIBUNE

MILANO 31 Gennaio 2021

ARTRIBUNE Pittura lingua viva.

ARTRIBUNE

Pittura lingua viva.

Intervista a Mattia Barbieri

VIVA, MORTA O X? 92ESIMO APPUNTAMENTO CON LA RUBRICA DEDICATA ALLA PITTURA CONTEMPORANEA IN TUTTE LE SUE DECLINAZIONI E SFACCETTATURE ATTRAVERSO LE VOCI DI ALCUNI DEI PIÙ INTERESSANTI ARTISTI ITALIANI: DALLA PITTURA “ESPANSA” ALLA PITTURA PITTURA, DALLE CONTAMINAZIONI E SLITTAMENTI DISCIPLINARI AL DIALOGO CON IL FUMETTO E L’ILLUSTRAZIONE FINO ALLA RILETTURA E STRAVOLGIMENTO DI TECNICHE E ICONOGRAFIE DELLA TRADIZIONE.

 

Mattia Barbieri (Brescia, 1985), vive a Milano e New York. Ha frequentato l’Accademia di Belle Arti di Brera, dove ha conseguito il diploma in Arti visive di primo e secondo livello. Tra le sue mostre personali: The Butter Monk, Pablo’s Birthday, New York, 2019; Le stelle senza il tramonto, Palazzo Ranzanici, Brescia, 2017; Due * The Full Frontal, Pablo’s Birthday Gallery, New York, 2017; Uno * The Full Frontal, Dimora Artica, Milano, 2016; Tango for the Shadow, Studio Maraniello, Milano, 2016; Vedute * The New Fragrance, Galleria Oltredimore, Bologna, 2014; Pitture Domestiche, Federico Luger Gallery, Milano, in contemporanea all’omonima mostra presso Trieste Contemporanea, Trieste, 2013; Dessert on Desert, 42 Contemporaneo, Modena, 2010. Tra le mostre collettive, progetti speciali e premi, in Italia e all’estero: Holomovement, Dimora Artica, Milano, 2020; Vessel Memories, The Border Gallery, Brooklyn, New York, 2019; Come to Have, Museo Archeologico, Nola, 2019; IXION, la collezione, la sua evoluzione e la ricerca culturale al servizio della città, Museo di Arte Contemporanea, Lissone, 2018; VIII Biennale, MAM, Museo di Arte Moderna, Mantova, 2014; Qui Vive?: Attention Border Crossing, 2nd Moscow International Biennale, Winzavod Contemporary Art Center, Mosca, 2010. È vincitore del Primo Premio Pittura del Museo di Lissone. Durante Expo Milano 2015 ha collaborato con Progetto Città Ideale, esponendo e curando un ciclo di eventi artistici presso la Sala delle Colonne della Fabbrica del Vapore a Milano. È membro attivo della rivista d’arte E IL TOPO

L’INTERVISTA A MATTIA BARBIERI

Come ti sei avvicinato alla pittura?
La pittura esiste da sempre. Antonio, mio nonno paterno, è pittore, dunque il “fare” un quadro per me è una cosa assolutamente naturale. Da bambino spesso si usciva insieme in bicicletta muniti del necessario per una sessione en plein air.

Chi sono gli artisti e i maestri cui guardi?
Guardo tutti e nessuno. Guardo l’arte con estrema attenzione e mi lascio guidare dentro. Certo, ho la Top 10 dei miei Maestri, ma più che altro osservo lo sguardo, cercando di interpretare la direzione indicata, la strada tracciata.

Quanto la storia, la tradizione della pittura incidono nelle tue opere o nella scelta dei soggetti?
Verso i 17 anni ho pensato che avrei potuto fare l’artista. Ricordo che soprattutto all’inizio dipingevo cose, oggetti che avrei voluto possedere, che si trattasse di un paio di scarpe, del fascino di un attore o della purezza di una mente illuminata. Non faceva differenza. La pittura era una pratica il cui agire scaturiva proprio da una volontà di deglutire il mondo esterno. Materializzando “sarei esistito”. Credo che probabilmente le cose non siano cambiate poi molto alla loro radice. Amo l’arte antica e spesso dipingere, per esempio paesaggi che ricordano le ambientazioni della tradizione pittorica, significa possedere la pittura, in quanto entità, ma anche canzonarla, considerando ciò che è stato fatto come un codice precostituito per ricombinarlo in una nuova veste, non senza ironia.

E la memoria e il ricordo che ruolo hanno?
Sono di un segno d’acqua, il Cancro, dunque la mia posizione astrale impone una propensione alla memoria, al recupero, al passato.

LA PITTURA DI MATTIA BARBIERI

Nelle tue opere convergono immagini disparate ed eterogenee. Tutti gli elementi sono sullo stesso piano. Si è parlato della tua come di una “pittura senza soggetto”. Ti ritrovi in questa definizione? Come nasce una tua composizione?
Diciamo che questa definizione calza per alcune serie nello specifico, come nel caso di Naive Melody o di Pitture Domestiche, in cui l’oggetto quadro è concepito come una superficie dove la pittura si stratifica livello dopo livello, annullandosi e riscrivendosi, cancellandosi e riformulandosi, senza tener conto di uno spazio pittorico che abbia una soluzione logica di continuità. In quei casi ho usato anche utensili elettrici come trapano e levigatrice incidendo la tavola per rendere nuovamente visibile il supporto, per trovare un nuovo assetto e ricominciare da capo. Mi divertiva l’idea di dipingere con una levigatrice. Queste serie mi hanno permesso di agire con assoluta libertà, non dovendomi curare nello specifico di cosa avrei dipinto, proprio perché la centralità risiede nel processo atto a esplicitare la bidimensionalità dell’immagine. Nel mio caso il soggetto è quasi sempre un pretesto per far emergere la pittura, nella sua fisicità, ruvida o patinata, a seconda del momento. Lavorando per serie gli intenti assumono ogni volta caratteri diversi.

Come convivono alchimia e ikebana (l’arte di comporre i fiori)?
La serie degli Ikebana nasce a New York ed è stata esposta nel 2019 alla Pablo’s Birthday con il titolo The Butter Monk. “Il monaco di burro” rappresenta la condizione del pittore che deve mantenersi sempre fresco nello spirito della pittura, per non sciogliersi. L’alchimia è un processo di trasformazione che avviene per mezzo del simbolico vaso alchemico, per l’appunto. Alchimia e ikebana sono accumunate dalla ricerca di una condizione specifica che permette di operare governati dal silenzio. Nell’ikebana colui che agisce ricerca consapevolmente questo stato dell’essere mettendosi a disposizione di un ordine estetico precostituito e ben preciso, al fine di trovare l’armonia assoluta. I miei Ikebana sono un ciclo di opere su carta: si tratta di collage di pitture a olio che ho ritagliato e posizionato sullo stesso supporto cartaceo. Il mio interesse, oltre alla ricerca di un equilibrio cromatico e compositivo, volgeva alla rappresentazione-azione con il soggetto posto sullo stesso asse semantico. L’adagiare fisicamente vaso, foglie e fiori, compiendo il medesimo gesto che si adotta quando si arrangia una composizione floreale, ha significato realizzare bidimensionalmente un vero e proprio ikebana che trova corrispondenza tra reale e rappresentazione.

La tua pittura poi è quasi una narrazione della pittura stessa e della sua pratica…
Attraversando con lo sguardo la ricerca, osservo che lo sviluppo dei vari periodi avviene come se l’operare fosse guidato da una sorta di zoom in grado di catturare soggetti e modi da prospettive differenti, come fosse la storia di un gesto. Gli elementi che appaiono determinando le caratteristiche di una serie specifica assumono una connotazione diversa nel ciclo successivo: per esempio lo scarabocchio digitale che compare in alcuni dipinti del 2015 e che si materializza con le sembianze di una bacchetta di legno nella successiva New Metaphysics o ancora il piano pittorico di Pitture Domestiche è uno zoom-in dei muri incisi che costituiscono gli ambienti dell’anno precedente. Una volta che gli elementi esistono pittoricamente sono come parole che compongono un codice grammaticale, non importa se appartengono alla tradizione o sono un “neologismo” dell’occhio, tutto avviene sullo stesso piano ed è divertente decostruirne o ristrutturarne il significato. È una gincana visiva cui cerco di infondere un carattere liquido in grado di adattarsi a contenitori di forme diverse.

Un altro tema a te caro è quello dell’archivio.
Archiviare, catalogare, collezionare, in tanti sensi è come campionare il mondo. L’archivio è un modus operandi per sedimentare il molteplice e chi lo sa, magari giungere a una sintesi per trovare l’unità.

LA TECNICA DI MATTIA BARBIERI

Come affronti invece il tema del paesaggio, della natura? Hai anche partecipato a Landina che prevedeva una pittura en plein air e con tuo nonno, dicevi, dipingevi all’aperto. Dipingi ancora dal vivo?
Nella mia fase adulta sono state rare le volte che sono stato ispirato da soggetti che si trovassero in quel momento di fronte a me, a eccezione di un’altra immagine. Landina è stata un’occasione preziosissima dove ho potuto approcciarmi a stimati colleghi e dipingere en plein air. Per la residenza ho premeditato un dispositivo pittorico, che consiste in uno zaino in cui si possono inserire le tavole, che potesse aiutarmi nella logistica durante gli spostamenti e, aprendosi, diventare una sorta di pala d’altare modulata come fosse un polittico che trova già la propria dimensione espositiva. Protagonista di ogni pezzo è il paesaggio ruotato, sovrapposto o inserito nella cornice di uno smartphone, sempre per sottolineare il fatto che di immagine si tratta.

E il disegno che ruolo svolge nella tua pratica?
Il disegno è fondamentale, ma è una pratica che non esiste in funzione della pittura, è un’entità indipendente in cui mi sento assolutamente libero. Cerco sempre la sfida nell’equilibrio, l’armonia nella sproporzione e nel rincorrere questo risultato formale non contemplo alcun margine di errore proprio perché il tutto “avviene”. Quando disegno, in genere, procedo facendone una ventina, tutti d’un fiato. Spesso sono realizzati semplicemente con l’uso di pennino e china. Mi piace che i materiali d’impiego siano ridotti allo stretto necessario. Mi piace sperimentare, dunque in alcune sessioni ho usato anche olio, vernice spray o sticker. Il contatto tra pittura e disegno credo avvenga, ma in modo intermittente e trasversale. Nella serie Opera Buffa lo si avverte in modo più visibile ed è come se la personificazione del disegno reggesse la pittura che in questo caso è oggettualizzata nella sua rappresentazione apparendo all’interno del dipinto stesso.

Fai bozzetti preparatori?
Mai. Ho tentato innumerevoli volte e in diversi momenti della mia vita, ma è più forte di me: quando progetto è possibile che, cercando di realizzare l’idea, anche solo un minuto dopo averla ipotizzata, faccia esattamente l’opposto. Per me è importante essere a disposizione del dialogo nel momento esatto in cui la pittura si compie. Nelle serie più essenziali mi capita di scaricarmi un po’ con il disegno prima di cimentarmi con la pittura, di modo da trovarmi centrato quando devo arrivare a una sintesi, ma si tratta, in questo caso, di stretching.

Cos’è il Full Frontal?
Full Frontal è un modo per definire in due parole l’intento di far affiorare ogni cosa sullo stesso piano. Anche in questo caso si può dire che la pittura parli di sé, esplicitando la propria natura bidimensionale. “Pieno e frontale” è letteralmente il dipingere non tenendo conto della centralità del soggetto, ma riponendo il protagonismo nel processo stesso. È un modo per pensare allo spazio pittorico in una prospettiva che non considera l’illusione connaturata nell’identità pittura, ma che stratifica fisicamente ciò che appare. Questo approccio è valido soprattutto per Naive Melody e Pitture Domestiche, ma credo che la ragione per cui molti miei quadri abbiano una stesura di un prodotto che sigilli il dipinto al suo stadio finale risieda proprio nel voler (in un modo diverso) dare l’idea che le immagini si siano impresse, quasi magicamente arrivate sulla tavola.

Hai realizzato anche degli autoritratti: cosa significa il rappresentarsi? E lo specchio?
Con Selfie mi sono autoritratto, ma, a dire il vero, è l’occasione per mettere in scena la pittura stessa, come nel caso del ritratto-autoritratto di Rembrandt, cui ho dedicato una decina di dipinti, che è un vero e proprio “brand” dell’autore. La pittura viene celebrata attraversando i sui generi, simulando le pennellate e trovando ogni pretesto formale per darle voce.

In generale, quanto conta il dato autobiografico?
La pittura è un dialetto, tutto è autobiografico. Quante volte mi sono accorto a fine giornata di aver scelto per le pitture gli stessi colori degli abiti che ho indossato la mattina per andare in studio! Non potrei dipingere gli stessi quadri se mi trovassi a Milano, in montagna o a New York, o se piovesse, nevicasse o ci fosse il sole. Guardando i cicli che costituiscono la mia produzione, riconosco esattamente gli aspetti di me predominanti in quel periodo. Le caratteristiche che definiscono un ciclo sono un ritratto delle attitudini, delle letture, dei film o delle frequentazioni di quel momento.

Collegandosi a questo, cosa sono le già citate Pitture Domestiche?
Nel 2012 ero a Milano senza studio ma con una stanza in più. La pittura era letteralmente domestica e, sotto certi aspetti, addomesticata. Pitture Domestiche è la volontà di trovare un escamotage formale che legittimi l’accumulo, lo sgraziato e l’incoerente nella gestione del soggetto. Per attuare questa prospettiva stilistica serve coesione semantica: con un serramanico graffio sul muro un numero di telefono sul quale è appiccicata con un pezzo di nastro adesivo scarabocchiato con l’indelebile la fotografia in bianco e nero che ritrae uno sconosciuto ridicolizzato da baffi corna e barba tracciati per mezzo di una Bic. Il tutto dipinto. Trompe-l’oeil, illusione, profondità pittoriche si amalgamano con i segni più immediati e ruvidi.

Come sono “le stelle senza tramonto”?
Mia nonna cadendo ha battuto la testa. Quando me l’ha raccontato mi ha detto: “Ho visto le stelle senza il tramonto”.

PITTURA E SERIE

Perché la necessità di organizzare le tue opere in serie?
Fondamentalmente quello che mi interessa è interagire con la pittura in quanto linguaggio, tentare di comunicare con la sua grammatica. Essendo un territorio vastissimo e complesso, per me è importante agire per serie per dedicarmi agli aspetti che la compongono. I cicli si costituiscono.

E come nasce quella dedicata agli iPhone?
Il digitale inteso come segno o come display è, come ogni altro elemento, un pretesto per fare pittura, aprire un’ulteriore finestra o alternare una tipologia di segno a un’altra. New Metaphysics lascia intuire, già dal titolo, il recupero di un periodo specifico della pittura ed è da intendersi come un jeux de mot in cui lo still-life è combinato in modo da attivare piccoli cortocircuiti in cui l’immagine si dichiara sempre protagonista.

Come si è trasformato il tuo lavoro nel tempo?
Il mio lavoro è sempre stato fondamentalmente pittorico. Le trasformazioni sono avvenute di pari passo con l’avanzare degli eventi, non voglio dire evoluzione-involuzione o sviluppo, semplicemente l’identità è in continuo ribollio. All’inizio era una pittura più ruvida e anche più immediata, poi si è fatta anche riflessiva. In passato sentivo la necessità di iniziare e finire subito un dipinto, era inconcepibile riprenderlo il giorno dopo, ora posso impiegarci anche settimane, concedendo attenzione miniaturiale al dettaglio, pur mantenendo un modo di dipingere, credo, molto veloce.

La tecnica conta?
Spesso la qualità della pittura e il suo messaggio risiedono esattamente nel “come” tecnicamente il quadro è risolto. La pittura parla di sé, dunque l’abilità, che in accezione canonica spesso coincide con il virtuosismo, non credo abbia molta importanza, ma la tecnica intesa come risoluzione formale in grado di restituire il messaggio in termini visivi, invece, sì. Credo che la pittura sia “invenzione” e fa parte del gioco escogitare processi per ottenere specifici risultati. Guardando un de Pisis, sento l’odore del pesce o l’organicità viva della frutta, scorgendo un Donghi, colgo la morbidezza e le grazie delle sue donne, come madonne; vedendo un Morandi rivivo la luce e la sensazione della pasta dell’olio è palpabile sfregando l’indice e il pollice, ma se ascolto un Depero facilmente è il pollice che con il medio schiocca a ritmo di un coloratissimo jazz. La tecnica non conta ma bisogna padroneggiare il pennello per poter dire quello che vuoi, come vuoi.

Mentre il colore che ruolo ha? E la luce? La materia?
Il colore, la luce, la materia sono componenti costitutivi della pittura. Ognuno di questi aspetti va calibrato a seconda di ciò che si vuol comunicare. Negli ultimi anni mi interessa molto la sacralità dell’oggetto quadro. Amo le icone russe e sono profondamente attratto dal fatto che il dipinto possa essere una porta per accedere a una dimensione altra, come spiega bene Pavel Florenskij ne Le porte regali. Nella mia ultima serie, Eterno85, i dipinti sono concepiti esattamente come delle icone, dei veri e propri congegni visivi in cui avvengono delle teofanie. Lo sfondo è costituito da un pattern, una vibrazione cromatica piatta, densa e cangiante che si contrappone a paesaggi, luoghi ben definiti abitati dall’uomo. Nella mia visione questo genere di campitura di fondo corrisponde all’elemento dell’oro nella tradizione: lo spazio del Sacro. La pelle della pittura è piatta, liscia e non ha rilievo. Come dicevo, mi piace livellare ogni variante di opacità con una vernice finale.

La tua è una pittura lenta o veloce?
Operativamente veloce. Se un quadro impiega settimane per essere completato è o per riflettere sul da farsi o perché è molto dettagliato. Quando inizio una serie mi piace avere almeno 5-6 tavole da iniziare contemporaneamente, condurle fino a un certo stadio di completamento e da circa metà realizzazione in poi dedicare attenzione al singolo come se fosse l’Unico.

Che formati prediligi?
Mi piace dipingere su tavola. Amo i piccoli formati per il grado di intimità che si stabilisce con il dipinto. Amo i medi formati perché mi offrono la possibilità di fare come con i piccoli ma un po’ più in grande. Amo i formati grandi perché puoi estendere la bracciata. Comunque, per molte ragioni, anche di ordine pratico, faccio più quadri piccoli che grandi.

Realizzi anche sculture. Come avviene il passaggio dalla bidimensionalità alla tridimensionalità e viceversa? Cosa cambia?
A dire il vero sono in grande empatia anche con la scultura, nonostante siano pratiche diversissime. Mi piace che occupi uno spazio e che soprattutto nel momento in cui la si fa ci si possa girare attorno. Il gesso e il cemento sono i materiali che impego più frequentemente perché mi offrono la possibilità di essere scolpiti da un blocco, ma anche di essere colati in una forma e questo stilisticamente amplia il ritmo visivo e i significati che ne derivano. Le sculture in legno spesso le dipingo una volta ultimate e mi diverte che la didascalia possa adattarsi a quella di un mio dipinto: oil on wood.

La pittura è terapeutica?
La pittura è una compagna.

Perché fare pittura oggi?
La pittura è un canale. Finché le cose accadono e il mondo esiste ci sarà sempre la necessità di tradurre il reale con nuovi stilemi.

Cosa pensi della scena della pittura italiana contemporanea?
Penso che sia popolata da molti artisti di altissima qualità. Credo che il sistema italiano risenta delle problematiche che lo rendono succursale di un’organizzazione che tira le redini e che non è in grado di dare il giusto spazio anche a lavori di qualità. I social sono un ottimo canale ma si rischia di confondere ricerche autentiche con fotogenie da Instagram.

‒ Damiano Gullì

LA PITTURA COME CONGEGNO SPAZIOTEMPORALE

Stefano Castelli

Villa Ranzanici, 2017
LE STELLE SENZA IL TRAMONTO

LA PITTURA COME CONGEGNO SPAZIOTEMPORALE

(italian version)

Di primo acchito esuberante ed espansiva, la pittura di Mattia Barbieri sottende un’elaborazione intellettuale di primo livello. Nonostante la spiccata capacità tecnica, gli effetti illusionistici e la ricchezza di elementi, si tratta di una pittura di superficie. Tutto si svolge su un unico piano, ideale e concreto, un campo all’interno del quale gli elementi si dispongono senza apparente gerarchia. La superficie del dipinto raccoglie sedimenti dell’immaginario collettivo, della storia dell’arte, della cultura popolare; tutto è sullo stesso piano perchè il dipinto dichiara fortemente di non avere un centro. O meglio, ne possiede diversi, disparati e concomitanti, alternative democratiche all’univocità che viene istintivo cercare in un quadro. Barbieri descrive questo tratto della sua poetica parlando di “pittura senza soggetto”; e con ciò intende senza un soggetto prevedibile, precostituito, univoco, riconoscibile senza elaborazione intellettuale da parte dello spettatore.

La composizione è evidentemente solida, a tratti certosina e virtuosistica; ma, scegliendo la strada più difficile, essa si basa su un centro multiplo, disperso, frammentato e non immediatamente a disposizione. La dittatura del soggetto che oggi vige, e che questi dipinti scardinano, non è certamente quella umanistica, che poneva l’individuo al centro, che lo valorizzava facendone un cardine e un punto di snodo per la costruzione della collettività. La frontalità dell’individuo oggi è invece una frontalità di facciata, una bidimensionalità che pone lo pseudosoggetto al centro di stimoli da lui incontrollabili. L’esautorazione del soggetto avviene proprio fingendo di mettere il soggetto stesso al centro. E lo schermo digitale è un buon simbolo di questo spodestamento: ciò che viene percepito come specchio personalizzato di sé è invece un pozzo senza fondo, un fulcro in cui lo sguardo si perde rinunciando al discernimento di se stesso.

Ecco che, in quest’ottica, la pittura di superficie di Barbieri si configura come un commento sulla situazione esistente, e soprattutto come la rappresentazione di un’alternativa. Tutti gli elementi sono sullo stesso piano, sì: ma nessuno di essi si perde nell’omologazione; la centralità e l’univocità del soggetto si perdono, ma in virtù di un’espansione delle possibilità, di un aumento delle potenzialità di interazione tra i diversi elementi e tra le diverse sfaccettature del soggetto. L’omogeneizzazione di riferimenti e elementi che vive sulla superficie è il contrario dell’omologazione; è piuttosto un’operazione di riappropriazione o di détournement. Il riferimento al digitale è in effetti un elemento importante nell’opera di Barbieri, sempre nell’ottica della riappropriazione.

La simulazione di effetti e tecniche digitali ottenuta esclusivamente con la pittura non vale come tentativo illusionistico in sé e per sé, ma serve a rimescolare le carte all’interno dell’estetica digitale che ogni giorno sperimentiamo. Il digitale non è però l’elemento prevalente. Tutto confluisce in un discorso sulla pittura che consiste in una presa di distanza, in un riesame delle convenzioni e nella costruzione di una lettura di secondo grado, senza che venga perciò esautorata la pittura stessa. Essa diventa un mezzo e non un fine, e proprio per questo viene valorizzata. In fondo, i dipinti di Barbieri funzionano come dei congegni che, riportando sullo stesso piano elementi disparati, mettono in moto “lo spazio e il tempo della pittura” – come dichiara l’artista stesso. Una volta innescato questo meccanismo, lo spettatore deve procedere a un percorso di appropriazione del dipinto, all’attraversamento di uno spazio libertario. L’operazione di riappropriazione agisce ovviamente anche sull’immaginario esterno all’opera, contro le standardizzazioni dell’estetica digitale e di ogni discorso precostituito, non ultimo quello relativo alla pittura. Fin qui il quadro concettuale, il metodo, l’ambito nel quale questi dipinti si muovono: lo studium, per dirla con Barthes. Ma all’interno di questo schema non manca certo il puctum: i dipinti di Barbieri presentano mille elementi espressivi, concatenazioni di significato, metafore e allusioni, pur senza mai scadere nella narrazione o nel simbolismo.

Alcuni di questi elementi si ripetono, tornano di opera in opera come una firma, un marchio che estende il discorso oltre l’episodio. Altri si presentano inopinatamente, una tantum, e fanno l’unicità del singolo quadro. Nella presente mostra, come in quelle precedenti dell’artista, la catena di significanti si innesca sin dal titolo. Le stelle senza il tramonto è una frase che proviene dall’universo privato dell’artista, un ricordo innescato dalla suggestione di esporre nel paese della sua infanzia. Ma la frase si slega dal referente d’origine per diventare spunto d’interpretazione, vago al punto giusto, dei lavori: secondo Barbieri, “le stelle senza il tramonto” dà un’idea di permanenza, di eternità; ma si potrebbe aggiungere che la frase evoca anche un’atmosfera di provvisorietà, di precarietà, un’inversione di spazio e tempo che spiazza le aspettative. Il titolo evoca, in ogni caso, l’irruzione di uno scenario, la comparsa inopinata di un paesaggio, concetto quest’ultimo fondamentale nella poetica dell’artista. Gli spunti concreti inerenti al paesaggio non mancano: nei riferimenti alla pittura antica, nella rappresentazione (frammentaria) di una natura che si oppone alle immagini tipiche del capitalismo avanzato -frapponendosi tra loro. Ma si tratta soprattutto di un paesaggio mentale, non nel senso di astrazione onirica ma di panorama dell’immaginario: un vero e proprio campionario di spunti tratti dall’immaginario collettivo compone i dipinti senza centro (e “senza soggetto”) di Barbieri. Va da sé che questi spunti sono rivisitati, sublimati, allusivamente messi in rapporto secondo dinamiche incongrue di riappropriazione.

Altri spunti simbolici -ma sempre antinarrativi- sono quelli che indicano una tensione verticale, un’ascensione, un oltrepassamento: dal terzo occhio che si trova nel ritratto pseudodigitale sagomato, fino al corno fallico che punta verso il cielo all’interno di alcune sculture. Si aggiunga ad essi il cielo che compare a sprazzi, più evocato che rappresentato, e i brandelli di paesaggio già citati. La sensazione generale è quella di una liberazione, dell’uscita dallo spazio costringente, fisico e mentale, che caratterizza la nostra epoca. Si diceva degli elementi che ritornano di quadro in quadro, e dell’indagine sul “tempo della pittura”: attengono a questi due ambiti le cifre, i “contatori” che compaiono in punti defilati oppure centrali dei quadri: come cronometri mai partiti, oppure fermatisi senza ragione apparente, denotano la virtualità dell’immagine, la lettura di secondo grado che va fatta di ciò che si ha davanti agli occhi. Attribuiti a un singolo settore, complicano la divisione in sezioni concomitanti dei dipinti, rimescolandone la gerarchia: qual è il piano attuale e quale quello involuto nel continuum temporale? qual è quello reale e quale quello immaginario? L’uno e l’altro piano, ovviamente, a turno e contemporaneamente. Un altro elemento ricorrente sono poi i brandelli di scotch, simulati con la pittura. Punti di raccordo tra i diversi settori del dipinto, snodi tra diversi elementi e assieme elementi cardine della composizione, sono una perfetta raffigurazione simbolica della teoria del piano orizzontale di Leo Steinberg -la sua descrizione dell’opera d’arte contemporanea come “campo” di pensiero concettuale si basava metaforicamente sul piano di lavoro del linotipista. Le sculture, infine, sono un’espansione alternativa del discorso dei dipinti: si collocano su un piano leggermente discosto dal discorso principale, portando avanti maggiormente l’ambito espressivo, allusivo, metaforico. Come motti di spirito per immagini, sciarade di oggetti, trasportano nello spazio la disposizione in piani concomitanti dei dipinti. Di primo acchito quasi sciamaniche, amuleti che scongiurano o propiziano qualcosa di indefinito e inafferrabile, le sculture si rivelano taglienti e “concettuali” grazie al dialogo linguistico tra gli elementi che le compongono, che si fronteggiano al loro interno.

TANGO FOR THE SHADOW

Marco Arrigoni

Studio Maraniello, 2016
TANGO FOR THE SHADOW

TANGO FOR THE SHADOW

The works on display are metadiegetical narratives on the practice of painting. Some sort of mise-en-abyme comes about, where no image that is self-reflected, but there is the painting that delves into itself. Mattia Barbieri is not interested in creating referential works, at most, the pictorial subject is eliminated by staging the theme par excellence, himself. Thus he arrives at the big three self-portraits (oil and spray on the wood) exhibited here, where the self that investigates on its own practice looks at itself in the mirror and that becomes the work, creating another self with which to dialogue, pictorially. It is not by chance that the height of the three oils is such as to allow Barbieri to create an immediate visual contact with the alter ego.


Self-portraits, as the two small landscapes in the exhibition, are created through an inter-medial research between painting, sculpture and digital graphics. It is possible to notice, the evidence, a virtual aspect that makes it look like this painting of a screen in which we see the pictures, although these are at the same time three-dimensional. The shape of the three- paintings on the walls in fact shows a spatiality in which painting is embodied, almost like a dermis of a compact sculpture. The size, the material and the shape of the support have a profound effect on the works. It is evident in the cylindrical painting exhibited in the show, or in the palm trunk, engraved by the artist and made, at the same time, sculpture and pictorial support. Moreover here, it is recognized the homology between signifier and signified (the wood work representing the palm is the same which is the tree in nature), in a trompe-l’oeil effect already present in previous productions as in Pitture domestiche.

Under the tree, then, there are the ripe fruits fallen to the ground. A piece of paper, a rout box, a faux coral in wood, a packing element of the spray, a woody yellow object, and another three self-portraits. One is engraved on a river pearl, in which the eyes are filled with lead; the second is derived from the wooden handle of a box cutter; the last from a piece of wood and then painted yellow. Memorabilia are symbolic, almost esoteric references to ourselves and the other from oneself.

The esotericism, on the other hand, is gathered throughout the exhibition, in shapes, colors, in the pictorial auto-diegesis, until the title: Tango for the shadow is both an ironic play of words and an hermetic, occult citation. The exhibition is a sensual dance, of cautious approach, done in the vicinity and in the honor of the shadow, but to get away from it. It is important not to forget that every portrait has in itself one of the strongest symbols of religious and cultural history of the east, a sign of clairvoyance and lighting: the third eye. The exhibition, on the other hand, is not a continuous return beyond the ordinary vision? Beyond painting, sculpture, form, content?

UNO* THE FULL FRONTAL

Andrea Lacarpia

Dimora Artica, 2016
UNO-THE FULL FRONTAL

UNO* THE FULL FRONTAL

 

The new season of Dimora Artica opens on September 13, 2016 with the exhibition of Mattia Barbieri (1985, Brescia) entitled UNO – the full frontal. The exhibition is included in the collaboration between Dimora Artica and Galleria Arrivada, in a synergy that comes from respect and the common commitment to the promotion of contemporary art. Born from a reflection on the concept of all-encompassing unity in myths about the return to the origin, Mattia Barbieri’s project develops the idea of ​​Full Frontal, a dimension in which every sign is deconstructed and contaminated by the opposite sign that is superimposed on the wooden surface by creating one concentrated space-time, in which coalesce a multitude of images ranging from personal experiences to popular culture, from the pictorial experimentation to art history, from traditional craftsmanship to the digital language.


The heterogeneous and increasingly abundant visual material of contemporary life is metabolized by the artist in compositions that are intended to provide a summary, in a space that brings together frontally several perceptual dimensions. The exhibition is installed along the two levels of exhibition space, with sculptures and paintings in a symbolic relation of spatial mirroring.
The sculptures were created by combining buffalo horns, small human figures in bronze and brass elements. The sculpture placed on the ground floor features a male figure of primitive appearance that seems caught in the act of climbing vertically through a body of indefinite shape. The sculptural ensemble is suspended and connected to the ceiling through a long brass rod that draws a thin vertical line in space.

In the mezzanine, verticality flips into horizontality, with a sculpture in which a phallic shape faces a female figure. As in the representations of Alchemy, the masculine and feminine polarities are described by Barbieri in their mirroring opposition, psychic forces to be integrated into consciousness to rebuild the unity of the self.
In the paintings, the reflection on the One becomes less introspective and symbolic to focus on the pictorial language and perception of images and time in a contemporaneity strongly characterized by digital communication. The hierarchy between central subject and the background, typical of classical painting, is dissolved in a pictorial surface that receives the most diverse iconography and that, rotating the painting can continue to be enjoyed without losing the compositional balance. In the vision of the image, no detail draws back but each fragment advances frontally without overshadowing.
Understood by Barbieri as screens of electronic devices, the paintings take on additional value related to the vision of painting as a support for a writing that records a reality that is constantly changing.

As described in the documentality theory of Maurizio Ferraris, the social reality consists primarily of inscriptions without which acts wouldn’t become social objects, which today are multiplying thanks to the diffusion of media such as computers and smartphones. As an inscription, even painting is a social object that keeps track of actions, but it produces something peculiar, a reflexive movement that leads us to stop to mirror oneself from within. An operation that Mattia Barbieri assimilated to the production and sharing of selfies, for which to paint is to reflect oneself in the  painting and at the same time production of a social object.
Linear time is recorded by the pictorial gaze and transformed in an act that transcends past and present in the essential unity of human action.

IL PROFUMO DELLA PITTURA

Maura Pozzati

Oltredimore Gallery, 2014
VEDUTE- THE NEW FRAGRANCE

IL PROFUMO DELLA PITTURA

(italian version)
E farà il mio calore distendere i colori
Sul letto delle notti
Sulla natura nuda dove occupo un luogo
Più grande dei miei sogni

Paul Eluard

Amo i viaggi, il buon vino e la pittura e questa è la ragione per cui seguo il lavoro di Mattia Barbieri fin dall’inizio, da quando era studente a Brera e frequentava il mio corso di critica d’arte. Questa è la terza volta che scrivo per una sua personale e lo faccio dopo anni, per una mostra dedicata al paesaggio, ma soprattutto al suo profumo. Mattia Barbieri non ama utilizzare il termine paesaggio, forse lo spaventa un pò, dato che indica un preciso genere pittorico che ha un culmine nella svolta romantica: io invece ho deciso di usarlo, perché mi interessa questo aspetto romantico del suo lavoro, inteso come soggettivismo assoluto e come percezione diretta della natura, “a pieni polmoni” che permettono a Mattia Barbieri di liberare le proprie mani alla sperimentazione tecnica e la propria mente all’idea della veduta. La veduta si porta dietro, come il paesaggio, il ricordo di qualche cosa che è stato visto ma anche percepito, ascoltato ma anche odorato, un momento incantato in cui il soggetto si perde nell’oggetto, il dentro con il fuori: è questo che l’artista poi trattiene nella memoria e si porta dentro in studio, iniziando la sfida con la pittura e con la sua totalità.

“Abbracciare con gli occhi un luogo ed inciderne le fronde nella memoria, respirare a pieni polmoni l’aria della campagna, farne scorte per poi liberarla nello studio, luogo del lavoro assiduo. “The New Fragrance”, l’odore forte della pittura, la nuova essenza glam del mio essere visore-vedente-visto”. Basterebbero queste poche righe, scritte dall’artista, per leggere la mostra nel modo più giusto. Ma dato che Mattia Barbieri ama l’obliquo rispetto al dritto, il sentiero a ostacoli rispetto a quello più facile e veloce, cercherò anche io l’inciampo, utilizzando la pagina bianca nello stesso modo in cui l’artista usa la parete o la tela davanti a sé, cioè azzerando tutto, per cercare di ripartire.

Il paesaggio dunque: arduo è definirlo, i significati si fanno e si disfano, proprio perché, come ci dice Mattia Barbieri, il paesaggio è “veduta” e quindi imprescindibile dall’osservatore e dal modo in cui viene percepito e vissuto. Ma se cerco un’immagine per il paesaggio che sto tentando di descrivere questa si focalizza su due estremi, l’aurora e il tramonto, due opposti nietzschani che si rivelano equivalenti, in quanto momenti di una transizione. Aurora e tramonto dunque: un giorno ancora da cominciare dal profumo quasi fruttato ma delicato, che si colora di rosa e il giorno che va a riposarsi prima che venga il buio, che odora di muschio e di mare, carico di umori bruni e salmastri. Non basta certo una bella fotografia per fermare questo momento del paesaggio: come distillarne il profumo? Come miscelare i colori? Dove mettere le emozioni, la nostalgia, il senso della perdita, la gioia della bellezza, il senso di totalità e di impotenza e la voglia di descriverlo o di dipingerlo? Questo paesaggio che sto cercando di catturare è qualcosa che ho visto realmente, ne sono certa, ma è mescolato a ciò che ho studiato, ai quadri che ho visto, in un intreccio ormai inscindibile.

L’odore forte della pittura, che ho sentito fin da piccola nello studio di mio padre, così acrilico, così chimico e pungente si mescola ai miei ricordi d’infanzia; le parole di Mattia Barbieri si sovrappongono a quelle delle lettere di Cézanne, quando preso dalla necessità di dire quello che provava di fronte alla visione della natura scriveva: “Il paesaggio si rispecchia, si umanizza, si pensa in me. Io lo oggettivizzo, lo traduco, lo fisso sulla mia tela”. Perché il paesaggio lo si guarda e lo si sente, la natura la si percorre e la si annusa ma per possederla veramente bisogna “tradurla sulla tela”. Mattia Barbieri dice che è una presa di posizione nei confronti del “fare” e ha ragione perché ciò che l’arte fa è esprimere la conoscenza e il pensiero attraverso una tecnica che sia Téchne e Pensiero contemporaneamente.
Solo ora, scrivendo, ho capito che il paesaggio che sto tentando di descrivere è qualcosa che non ho solo visto e guardato ma è anche qualcosa che ho conosciuto.

La nozione del paesaggio è entrata dentro al gioco della pittura, facendo le proprie mosse, che sono rispondere alla nostalgia, al sublime, all’incanto della natura con i meccanismi di invenzione e di sorpresa dell’immagine e con le conoscenze linguistiche. In questo “gioco” della pittura entrano anche tutti i nostri sensi –Mattia Barbieri dice “di aprire un passaggio diretto nella Storia dell’Arte attraverso un rimando plurisensoriale”-, le intuizioni, le prove, gli errori, le sollecitazioni visive, olfattive e tattili, le solidificazioni, le tensioni, i rimandi continui tra i frammenti e la totalità. E allora questa new fragrance è una pittura “fresca”, fatta di successive stratificazioni e cancellazioni, di frammenti fotografici e di colori stesi sapientemente col pennello, di squarci di cielo e di scritte sui muri, di intagli nel legno e di passaggi con la levigatrice, di segni fumettistici e di tocchi romantici, di citazione colte e di dettagli pop.

La pittura è insidiosa, Mattia Barbieri lo sa bene, è una pratica antica da destreggiare con cura, facendo qualche esorcismo e magia, alla ricerca di una nuova fragranza che apra le narici, che penetri nel corpo, che abbia tutte le caratteristiche conosciute e qualcosa di sconosciuto insieme: che sia sensuale, classica, misteriosa, intensa, acida, luminosa, notturna, agrumata, estrema, vellutata, esotica, fruttata, romantica, scura, aromatica, fresca, legnosa, leggera. Più guardo i lavori di Mattia Barbieri e più mi faccio trasportare da aggettivi plurisensoriali, che sono in sintonia sia con la pittura che con le nuove essenze “glam” dei profumi da lanciare in commercio.

Il profumo della pittura appunto, l’odore intenso che emana il paesaggio quando è una strada da percorrere con lo sguardo che inizia là dove è dipinta una natura morta con fiasco di vino o quando è una madonna con bambino sfocata e in bianco e nero, sovraeccitata da frutti dall’odore intenso e dal colore acceso. Un limone giallo convive con uno squarcio di cielo, l’abbraccio di una madonna con bambino con un paesaggio en plain air, un dettaglio d’arte antica con un pezzo di scotch: tutto questo è la new fragrance che Mattia Barberi ha distillato nel suo studio e portato in questa nuova galleria, che ha le finestre sul parco del Cavaticcio, un riquadro verde che illumina lo spazio e che odora di inverno, mentre dentro si respira il profumo della sua pittura “fresca”.

Maura Pozzati

PITTORE QUOTIDIANO

Nicola Cecchelli

Federico Luger Gallery, 2013
PITTURE DOMESTICHE

PITTORE QUOTIDIANO

 

Everyday painter “The Zone is a single, vast building. The rooms are of a plastic cement that bulges to accommodate people […] A hum of sex and commerce shakes the Zone like a vast hive” William S. Burroughs. Mattia Barbieri’s latest works ‘hang’ from the walls, transfixing us like storms of radiant splinters. Barely confined within the limited space of the exhibition set up, they cry for a way out. All the while, the display room morphs into a sort of “[…] plastic cement that bulges to accommodate people”.

We are now getting swallowed into the Zone, and pause to contemplate the cosmos conveyed in each work, stunned by the outcome of multiple deflagrations. The explosions, however, haven’t obscured the architectural ruins leaving the surviving relics bathed in light. One can sense the first signs of life emerging from the debris fallout; through the dust of time one can almost catch a glimpse of the tributes to the history of Western painting: here and there we come across Goya’s darkness suddenly brightened by Vermeer’s light, and unexpected combinations of high-pitched dazzling Fauve notes, waning, like soiled, into the Informal. These paintings recall and witness the vestiges of the past, translated here and now into fragmented visual messages presented in a format that is more congenial to our age, marked by posts and twitters.

It’s a flavour some, domestic, everyday kind of painting, aged like good wine through suggestions cohabiting into the mind of the painter. Barbieri offhandedly flaunts a deep visual linguistic knowledge that allows him to ‘pull apart’ with ease the ‘inner working’ of images, ranging from the revisiting of the Cubist papier collé to echoes of Giotto’s anatomy, or from the naïve weightlessness disclosing the poignant humanity of everyday life to the visual poetry of a text message. In an age like ours, where culinary art is glorified in a number of TV programs, it would be interesting to follow Barbieri in the act of ‘cooking’ his images, quickly ‘glazing’ some ingredients or painstakingly ‘whisking’ some others. Painting like cooking, daily. His are, however, ‘bastard’ paintings, with an uncertain pedigree. The genetic mapping of such mestizo works includes obscene drawings, notes, numbers and names, hints and points, a lot of attempts but few doubts. His unconventional style of drawing, lends itself to carnival-like figures stumbling into the surface matter of the ‘panels’. The coexistence of cultural Mitteleuropean vestiges and suave Franciscan idylls is almost like the offering of a fusion seemingly celebrating a ‘bucolic dimension’ of painting. Following the clues scattered in his kaleidoscopic images is an inviting temptation that makes it easy to risk losing one’s starting point. Mapping his works is like attempting to draw the topography of a territory that is at the same time unexplored and hard to explore, a Zone where it is impossible to rely on sensorial certainties, because we are constantly attacked by synesthetic experiences smelling like yellow flavoured carillons. A background murmur rises from Barbieri’s works; the entire composition buzzes, and generates unexpected solutions. They are like luminous ruins, reminding us of a honeycomb structure, whose origins precede the beginnings of the ‘search’. Perhaps his paintings are like the walls of his own mind, displayed after a daily inspection, like depths that one needs to plumb to be able to start laying out, cataloguing and archiving ghosts, noises, dreams and notions.

Perhaps painting is a therapeutic practice, a discipline that needs to be mastered in order to perform a sort of personal exorcism. Gerhard Richter attempts to express the inexpressible with a few words: “Polke believes that there must be something in painting, because most mentally ill people start painting instinctively”. The spontaneity of sensations is like a spring and painting is like a net structure that can seize them. “There are two manners to overcome the Figurative (that is, the Illustrative and Narrative together): towards abstract form, or towards Figure, Cézanne calls it quite simply: sensation”. With these words Deleuze highlights how fleeting is the object that we are attempting to analyse, so elusive as to be literally represented by a particularly suggestive French word: sensation. Capturing sensations is a particular activity requiring an archaic tool, the ‘painting of bygone times’, and Barbieri himself perhaps hints at this in a sentence rigorously in the dialect of Brescia, taken from a 2007 footage: “el fattò l’è, che la pitüra, l’è miä pë chelö dè uno öltä!” (“the thing is, painting is no longer like in the old times!”). So the act of painting starts from far away, from the depths of time: “I like to think that painting was born in a cave and that these are like wall paintings making room for a layer of images anchored to the frame, holding to it as if it was the last place one could go”. The artist’s words shed light on the panorama of his work. And a work in progress this is, following the steps of a portrait of Barbieri, made by a familiar figure for him, a sort of ‘archetype’ that is simultaneously prophetic and crystalline: “[…] myself, immersed in the woods, with two oaks towering above me while I am bending on a rock, like an alchemist caught in the act of refining matter with a view to a life devoted to the tension of rising”.

NICOLA CECCHELLI

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