Mattia Barbieri (Brescia, 1985), vive a Milano e New York. Ha frequentato l’Accademia di Belle Arti di Brera, dove ha conseguito il diploma in Arti visive di primo e secondo livello. Tra le sue mostre personali: The Butter Monk, Pablo’s Birthday, New York, 2019; Le stelle senza il tramonto, Palazzo Ranzanici, Brescia, 2017; Due * The Full Frontal, Pablo’s Birthday Gallery, New York, 2017; Uno * The Full Frontal, Dimora Artica, Milano, 2016; Tango for the Shadow, Studio Maraniello, Milano, 2016; Vedute * The New Fragrance, Galleria Oltredimore, Bologna, 2014; Pitture Domestiche, Federico Luger Gallery, Milano, in contemporanea all’omonima mostra presso Trieste Contemporanea, Trieste, 2013; Dessert on Desert, 42 Contemporaneo, Modena, 2010. Tra le mostre collettive, progetti speciali e premi, in Italia e all’estero: Holomovement, Dimora Artica, Milano, 2020; Vessel Memories, The Border Gallery, Brooklyn, New York, 2019; Come to Have, Museo Archeologico, Nola, 2019; IXION, la collezione, la sua evoluzione e la ricerca culturale al servizio della città, Museo di Arte Contemporanea, Lissone, 2018; VIII Biennale, MAM, Museo di Arte Moderna, Mantova, 2014; Qui Vive?: Attention Border Crossing, 2nd Moscow International Biennale, Winzavod Contemporary Art Center, Mosca, 2010. È vincitore del Primo Premio Pittura del Museo di Lissone. Durante Expo Milano 2015 ha collaborato con Progetto Città Ideale, esponendo e curando un ciclo di eventi artistici presso la Sala delle Colonne della Fabbrica del Vapore a Milano. È membro attivo della rivista d’arte E IL TOPO
L’INTERVISTA A MATTIA BARBIERI
Come ti sei avvicinato alla pittura?
La pittura esiste da sempre. Antonio, mio nonno paterno, è pittore, dunque il “fare” un quadro per me è una cosa assolutamente naturale. Da bambino spesso si usciva insieme in bicicletta muniti del necessario per una sessione en plein air.
Chi sono gli artisti e i maestri cui guardi?
Guardo tutti e nessuno. Guardo l’arte con estrema attenzione e mi lascio guidare dentro. Certo, ho la Top 10 dei miei Maestri, ma più che altro osservo lo sguardo, cercando di interpretare la direzione indicata, la strada tracciata.
Quanto la storia, la tradizione della pittura incidono nelle tue opere o nella scelta dei soggetti?
Verso i 17 anni ho pensato che avrei potuto fare l’artista. Ricordo che soprattutto all’inizio dipingevo cose, oggetti che avrei voluto possedere, che si trattasse di un paio di scarpe, del fascino di un attore o della purezza di una mente illuminata. Non faceva differenza. La pittura era una pratica il cui agire scaturiva proprio da una volontà di deglutire il mondo esterno. Materializzando “sarei esistito”. Credo che probabilmente le cose non siano cambiate poi molto alla loro radice. Amo l’arte antica e spesso dipingere, per esempio paesaggi che ricordano le ambientazioni della tradizione pittorica, significa possedere la pittura, in quanto entità, ma anche canzonarla, considerando ciò che è stato fatto come un codice precostituito per ricombinarlo in una nuova veste, non senza ironia.
E la memoria e il ricordo che ruolo hanno?
Sono di un segno d’acqua, il Cancro, dunque la mia posizione astrale impone una propensione alla memoria, al recupero, al passato.
LA PITTURA DI MATTIA BARBIERI
Nelle tue opere convergono immagini disparate ed eterogenee. Tutti gli elementi sono sullo stesso piano. Si è parlato della tua come di una “pittura senza soggetto”. Ti ritrovi in questa definizione? Come nasce una tua composizione?
Diciamo che questa definizione calza per alcune serie nello specifico, come nel caso di Naive Melody o di Pitture Domestiche, in cui l’oggetto quadro è concepito come una superficie dove la pittura si stratifica livello dopo livello, annullandosi e riscrivendosi, cancellandosi e riformulandosi, senza tener conto di uno spazio pittorico che abbia una soluzione logica di continuità. In quei casi ho usato anche utensili elettrici come trapano e levigatrice incidendo la tavola per rendere nuovamente visibile il supporto, per trovare un nuovo assetto e ricominciare da capo. Mi divertiva l’idea di dipingere con una levigatrice. Queste serie mi hanno permesso di agire con assoluta libertà, non dovendomi curare nello specifico di cosa avrei dipinto, proprio perché la centralità risiede nel processo atto a esplicitare la bidimensionalità dell’immagine. Nel mio caso il soggetto è quasi sempre un pretesto per far emergere la pittura, nella sua fisicità, ruvida o patinata, a seconda del momento. Lavorando per serie gli intenti assumono ogni volta caratteri diversi.
Come convivono alchimia e ikebana (l’arte di comporre i fiori)?
La serie degli Ikebana nasce a New York ed è stata esposta nel 2019 alla Pablo’s Birthday con il titolo The Butter Monk. “Il monaco di burro” rappresenta la condizione del pittore che deve mantenersi sempre fresco nello spirito della pittura, per non sciogliersi. L’alchimia è un processo di trasformazione che avviene per mezzo del simbolico vaso alchemico, per l’appunto. Alchimia e ikebana sono accumunate dalla ricerca di una condizione specifica che permette di operare governati dal silenzio. Nell’ikebana colui che agisce ricerca consapevolmente questo stato dell’essere mettendosi a disposizione di un ordine estetico precostituito e ben preciso, al fine di trovare l’armonia assoluta. I miei Ikebana sono un ciclo di opere su carta: si tratta di collage di pitture a olio che ho ritagliato e posizionato sullo stesso supporto cartaceo. Il mio interesse, oltre alla ricerca di un equilibrio cromatico e compositivo, volgeva alla rappresentazione-azione con il soggetto posto sullo stesso asse semantico. L’adagiare fisicamente vaso, foglie e fiori, compiendo il medesimo gesto che si adotta quando si arrangia una composizione floreale, ha significato realizzare bidimensionalmente un vero e proprio ikebana che trova corrispondenza tra reale e rappresentazione.
La tua pittura poi è quasi una narrazione della pittura stessa e della sua pratica…
Attraversando con lo sguardo la ricerca, osservo che lo sviluppo dei vari periodi avviene come se l’operare fosse guidato da una sorta di zoom in grado di catturare soggetti e modi da prospettive differenti, come fosse la storia di un gesto. Gli elementi che appaiono determinando le caratteristiche di una serie specifica assumono una connotazione diversa nel ciclo successivo: per esempio lo scarabocchio digitale che compare in alcuni dipinti del 2015 e che si materializza con le sembianze di una bacchetta di legno nella successiva New Metaphysics o ancora il piano pittorico di Pitture Domestiche è uno zoom-in dei muri incisi che costituiscono gli ambienti dell’anno precedente. Una volta che gli elementi esistono pittoricamente sono come parole che compongono un codice grammaticale, non importa se appartengono alla tradizione o sono un “neologismo” dell’occhio, tutto avviene sullo stesso piano ed è divertente decostruirne o ristrutturarne il significato. È una gincana visiva cui cerco di infondere un carattere liquido in grado di adattarsi a contenitori di forme diverse.
Un altro tema a te caro è quello dell’archivio.
Archiviare, catalogare, collezionare, in tanti sensi è come campionare il mondo. L’archivio è un modus operandi per sedimentare il molteplice e chi lo sa, magari giungere a una sintesi per trovare l’unità.
LA TECNICA DI MATTIA BARBIERI
Come affronti invece il tema del paesaggio, della natura? Hai anche partecipato a Landina che prevedeva una pittura en plein air e con tuo nonno, dicevi, dipingevi all’aperto. Dipingi ancora dal vivo?
Nella mia fase adulta sono state rare le volte che sono stato ispirato da soggetti che si trovassero in quel momento di fronte a me, a eccezione di un’altra immagine. Landina è stata un’occasione preziosissima dove ho potuto approcciarmi a stimati colleghi e dipingere en plein air. Per la residenza ho premeditato un dispositivo pittorico, che consiste in uno zaino in cui si possono inserire le tavole, che potesse aiutarmi nella logistica durante gli spostamenti e, aprendosi, diventare una sorta di pala d’altare modulata come fosse un polittico che trova già la propria dimensione espositiva. Protagonista di ogni pezzo è il paesaggio ruotato, sovrapposto o inserito nella cornice di uno smartphone, sempre per sottolineare il fatto che di immagine si tratta.
E il disegno che ruolo svolge nella tua pratica?
Il disegno è fondamentale, ma è una pratica che non esiste in funzione della pittura, è un’entità indipendente in cui mi sento assolutamente libero. Cerco sempre la sfida nell’equilibrio, l’armonia nella sproporzione e nel rincorrere questo risultato formale non contemplo alcun margine di errore proprio perché il tutto “avviene”. Quando disegno, in genere, procedo facendone una ventina, tutti d’un fiato. Spesso sono realizzati semplicemente con l’uso di pennino e china. Mi piace che i materiali d’impiego siano ridotti allo stretto necessario. Mi piace sperimentare, dunque in alcune sessioni ho usato anche olio, vernice spray o sticker. Il contatto tra pittura e disegno credo avvenga, ma in modo intermittente e trasversale. Nella serie Opera Buffa lo si avverte in modo più visibile ed è come se la personificazione del disegno reggesse la pittura che in questo caso è oggettualizzata nella sua rappresentazione apparendo all’interno del dipinto stesso.
Fai bozzetti preparatori?
Mai. Ho tentato innumerevoli volte e in diversi momenti della mia vita, ma è più forte di me: quando progetto è possibile che, cercando di realizzare l’idea, anche solo un minuto dopo averla ipotizzata, faccia esattamente l’opposto. Per me è importante essere a disposizione del dialogo nel momento esatto in cui la pittura si compie. Nelle serie più essenziali mi capita di scaricarmi un po’ con il disegno prima di cimentarmi con la pittura, di modo da trovarmi centrato quando devo arrivare a una sintesi, ma si tratta, in questo caso, di stretching.
Cos’è il Full Frontal?
Full Frontal è un modo per definire in due parole l’intento di far affiorare ogni cosa sullo stesso piano. Anche in questo caso si può dire che la pittura parli di sé, esplicitando la propria natura bidimensionale. “Pieno e frontale” è letteralmente il dipingere non tenendo conto della centralità del soggetto, ma riponendo il protagonismo nel processo stesso. È un modo per pensare allo spazio pittorico in una prospettiva che non considera l’illusione connaturata nell’identità pittura, ma che stratifica fisicamente ciò che appare. Questo approccio è valido soprattutto per Naive Melody e Pitture Domestiche, ma credo che la ragione per cui molti miei quadri abbiano una stesura di un prodotto che sigilli il dipinto al suo stadio finale risieda proprio nel voler (in un modo diverso) dare l’idea che le immagini si siano impresse, quasi magicamente arrivate sulla tavola.
Hai realizzato anche degli autoritratti: cosa significa il rappresentarsi? E lo specchio?
Con Selfie mi sono autoritratto, ma, a dire il vero, è l’occasione per mettere in scena la pittura stessa, come nel caso del ritratto-autoritratto di Rembrandt, cui ho dedicato una decina di dipinti, che è un vero e proprio “brand” dell’autore. La pittura viene celebrata attraversando i sui generi, simulando le pennellate e trovando ogni pretesto formale per darle voce.
In generale, quanto conta il dato autobiografico?
La pittura è un dialetto, tutto è autobiografico. Quante volte mi sono accorto a fine giornata di aver scelto per le pitture gli stessi colori degli abiti che ho indossato la mattina per andare in studio! Non potrei dipingere gli stessi quadri se mi trovassi a Milano, in montagna o a New York, o se piovesse, nevicasse o ci fosse il sole. Guardando i cicli che costituiscono la mia produzione, riconosco esattamente gli aspetti di me predominanti in quel periodo. Le caratteristiche che definiscono un ciclo sono un ritratto delle attitudini, delle letture, dei film o delle frequentazioni di quel momento.
Collegandosi a questo, cosa sono le già citate Pitture Domestiche?
Nel 2012 ero a Milano senza studio ma con una stanza in più. La pittura era letteralmente domestica e, sotto certi aspetti, addomesticata. Pitture Domestiche è la volontà di trovare un escamotage formale che legittimi l’accumulo, lo sgraziato e l’incoerente nella gestione del soggetto. Per attuare questa prospettiva stilistica serve coesione semantica: con un serramanico graffio sul muro un numero di telefono sul quale è appiccicata con un pezzo di nastro adesivo scarabocchiato con l’indelebile la fotografia in bianco e nero che ritrae uno sconosciuto ridicolizzato da baffi corna e barba tracciati per mezzo di una Bic. Il tutto dipinto. Trompe-l’oeil, illusione, profondità pittoriche si amalgamano con i segni più immediati e ruvidi.
Come sono “le stelle senza tramonto”?
Mia nonna cadendo ha battuto la testa. Quando me l’ha raccontato mi ha detto: “Ho visto le stelle senza il tramonto”.
PITTURA E SERIE
Perché la necessità di organizzare le tue opere in serie?
Fondamentalmente quello che mi interessa è interagire con la pittura in quanto linguaggio, tentare di comunicare con la sua grammatica. Essendo un territorio vastissimo e complesso, per me è importante agire per serie per dedicarmi agli aspetti che la compongono. I cicli si costituiscono.
E come nasce quella dedicata agli iPhone?
Il digitale inteso come segno o come display è, come ogni altro elemento, un pretesto per fare pittura, aprire un’ulteriore finestra o alternare una tipologia di segno a un’altra. New Metaphysics lascia intuire, già dal titolo, il recupero di un periodo specifico della pittura ed è da intendersi come un jeux de mot in cui lo still-life è combinato in modo da attivare piccoli cortocircuiti in cui l’immagine si dichiara sempre protagonista.
Come si è trasformato il tuo lavoro nel tempo?
Il mio lavoro è sempre stato fondamentalmente pittorico. Le trasformazioni sono avvenute di pari passo con l’avanzare degli eventi, non voglio dire evoluzione-involuzione o sviluppo, semplicemente l’identità è in continuo ribollio. All’inizio era una pittura più ruvida e anche più immediata, poi si è fatta anche riflessiva. In passato sentivo la necessità di iniziare e finire subito un dipinto, era inconcepibile riprenderlo il giorno dopo, ora posso impiegarci anche settimane, concedendo attenzione miniaturiale al dettaglio, pur mantenendo un modo di dipingere, credo, molto veloce.
La tecnica conta?
Spesso la qualità della pittura e il suo messaggio risiedono esattamente nel “come” tecnicamente il quadro è risolto. La pittura parla di sé, dunque l’abilità, che in accezione canonica spesso coincide con il virtuosismo, non credo abbia molta importanza, ma la tecnica intesa come risoluzione formale in grado di restituire il messaggio in termini visivi, invece, sì. Credo che la pittura sia “invenzione” e fa parte del gioco escogitare processi per ottenere specifici risultati. Guardando un de Pisis, sento l’odore del pesce o l’organicità viva della frutta, scorgendo un Donghi, colgo la morbidezza e le grazie delle sue donne, come madonne; vedendo un Morandi rivivo la luce e la sensazione della pasta dell’olio è palpabile sfregando l’indice e il pollice, ma se ascolto un Depero facilmente è il pollice che con il medio schiocca a ritmo di un coloratissimo jazz. La tecnica non conta ma bisogna padroneggiare il pennello per poter dire quello che vuoi, come vuoi.
Mentre il colore che ruolo ha? E la luce? La materia?
Il colore, la luce, la materia sono componenti costitutivi della pittura. Ognuno di questi aspetti va calibrato a seconda di ciò che si vuol comunicare. Negli ultimi anni mi interessa molto la sacralità dell’oggetto quadro. Amo le icone russe e sono profondamente attratto dal fatto che il dipinto possa essere una porta per accedere a una dimensione altra, come spiega bene Pavel Florenskij ne Le porte regali. Nella mia ultima serie, Eterno85, i dipinti sono concepiti esattamente come delle icone, dei veri e propri congegni visivi in cui avvengono delle teofanie. Lo sfondo è costituito da un pattern, una vibrazione cromatica piatta, densa e cangiante che si contrappone a paesaggi, luoghi ben definiti abitati dall’uomo. Nella mia visione questo genere di campitura di fondo corrisponde all’elemento dell’oro nella tradizione: lo spazio del Sacro. La pelle della pittura è piatta, liscia e non ha rilievo. Come dicevo, mi piace livellare ogni variante di opacità con una vernice finale.
La tua è una pittura lenta o veloce?
Operativamente veloce. Se un quadro impiega settimane per essere completato è o per riflettere sul da farsi o perché è molto dettagliato. Quando inizio una serie mi piace avere almeno 5-6 tavole da iniziare contemporaneamente, condurle fino a un certo stadio di completamento e da circa metà realizzazione in poi dedicare attenzione al singolo come se fosse l’Unico.
Che formati prediligi?
Mi piace dipingere su tavola. Amo i piccoli formati per il grado di intimità che si stabilisce con il dipinto. Amo i medi formati perché mi offrono la possibilità di fare come con i piccoli ma un po’ più in grande. Amo i formati grandi perché puoi estendere la bracciata. Comunque, per molte ragioni, anche di ordine pratico, faccio più quadri piccoli che grandi.
Realizzi anche sculture. Come avviene il passaggio dalla bidimensionalità alla tridimensionalità e viceversa? Cosa cambia?
A dire il vero sono in grande empatia anche con la scultura, nonostante siano pratiche diversissime. Mi piace che occupi uno spazio e che soprattutto nel momento in cui la si fa ci si possa girare attorno. Il gesso e il cemento sono i materiali che impego più frequentemente perché mi offrono la possibilità di essere scolpiti da un blocco, ma anche di essere colati in una forma e questo stilisticamente amplia il ritmo visivo e i significati che ne derivano. Le sculture in legno spesso le dipingo una volta ultimate e mi diverte che la didascalia possa adattarsi a quella di un mio dipinto: oil on wood.
La pittura è terapeutica?
La pittura è una compagna.
Perché fare pittura oggi?
La pittura è un canale. Finché le cose accadono e il mondo esiste ci sarà sempre la necessità di tradurre il reale con nuovi stilemi.
Cosa pensi della scena della pittura italiana contemporanea?
Penso che sia popolata da molti artisti di altissima qualità. Credo che il sistema italiano risenta delle problematiche che lo rendono succursale di un’organizzazione che tira le redini e che non è in grado di dare il giusto spazio anche a lavori di qualità. I social sono un ottimo canale ma si rischia di confondere ricerche autentiche con fotogenie da Instagram.
‒ Damiano Gullì